Tradizioni, leggende e memorie Angeresi

C'era una volta…

Sono tante le leggende che gli anziani raccontavano ai figli e poi ai nipoti. Quei racconti orali sono stati negli anni tramandati e custoditi attraverso raccolte scritte dagli abitanti più attenti alle tradizioni locali, al passato, alle moltissime storie di vita che non possono essere dimenticate.

Vogliamo raccontarvi qualche nostra leggenda…

Nel castello che sorge sul colle della Rocca viveva, tanti anni fa, un nobile signore che aveva una figlia, la bellissima Radegonda. Il padrone del castello e gli abitanti del borgo sarebbero vissuti in pace se non fosse stato per le scorrerie del marchese Margolfo che chiedeva sempre nuove tasse e, quando i poveri angeresi non riuscivano a pagare in tempo, arrivava a cavallo coi suoi armati e devastava e incendiava i campi, i prati, le case. Quando dal torrione della Rocca si vedeva in lontananza la nuvola di polvere che preannunciava l’arrivo di Margolfo, la bella Radegonda scendeva al paese e si rifugiava nel suo padiglione, fra gli alti pioppi dell’isolino Partegora. Ma un brutto giorno - c’era tanta nebbia che non si vedevano nemmeno le mura del castello - il marchese arrivò inaspettatamente e Radegonda non fece in tempo ad andarsene. Quando Margolfo la vide, decise immediatamente di sposarla e il castellano, anche se a malincuore, dovette concedergli in moglie la sua amatissima figlia, perché il marchese era un uomo molto potente e non si poteva contraddirlo. Gli disse quindi di ritornare dopo due mesi, giusto il tempo di preparare i festeggiamenti. La povera Radegonda era disperata: non mangiava più, non dormiva più e piangeva, piangeva da far compassione anche alle pietre. Poco prima della data stabilita per le nozze, decise di andare al padiglione dell’isolino per dare un addio ai suoi cari pioppi, alla famiglia di cigni che aveva fatto il nido nel canneto, all’usignolo che la rallegrava con le sue serenate. Ma quella sera l’usignolo non cantava. Radegonda alzò lo sguardo per cercarlo, ma vide soltanto le nuvole che scorrevano veloci al di sopra dei rami. A un tratto notò che una di queste nuvole, bianca, luminosissima, scendeva sull’isolino. Chiuse gli occhi, abbagliata da tanto splendore e, quando li riaprì, accanto a lei c’era un giovane bellissimo: era il principe delle nuvole che, impietosito dalle sue lacrime, cercava di portarle conforto. Da quella sera Radegonda passò le sue giornate all’isolino e la compagnia del giovane principe quasi le faceva dimenticare che si avvicinava il momento delle nozze.Ma il giorno tanto temuto arrivò. Giunto il marchese Margolfo con la sua scorta, non trovò Radegonda e nessuno gli volle dire dove fosse nascosta. Nessuno eccetto una vecchia malvagia che viveva in una casetta sulla riva del lago: la vecchia si era accorta che mancava la barchetta di Radegonda, ormeggiata di solito sulla riva.Fu così che Margolfo venne a conoscenza del nascondiglio della promessa sposa e, sceso alla riva del lago di fronte all’isolino, cominciò a chiamarla, ordinandole di tornare subito a riva altrimenti sarebbe andato a prenderla lui stesso. Radegonda continuò a tacere anche quando un tonfo e un forte sciacquio le fecero capire che Margolfo si era buttato nell’acqua e stava nuotando verso di lei. Allora il principe delle nuvole si rivolse alle sue sorelle, le nuvole nere, perché accorressero in aiuto della bella Radegonda. Dal cielo, improvvisamente coperto di nubi temporalesche, un fulmine si abbatté sul marchese che, trasformato in un macigno, si inabissò nel lago. Tutti si rallegrarono per la fine del tiranno, pensando che con lui fossero finiti anche i loro guai. Ma non fu così.

Pochi anni dopo la zona fu colpita da una grande siccità. Le acque del lago si erano molto abbassate, e un giorno un pescatore che stava attraversando con la sua barca il braccio di lago che separa la riva di Angera dall’isolino Partegora fece appena in tempo a evitare uno scoglio di cui non si era mai accorto. Si fermò, gli girò intorno, e vide incise sulla roccia queste parole: Quando mi vedrete, piangerete. E piansero davvero quell’anno gli abitanti di Angera, perché nei campi, a causa della siccità, non crebbe nemmeno un filo d’erba. Ancora oggi quando quel sasso affiora dall’acqua del lago, l’erba cresce a stento nei prati, gialli e riarsi come dopo le scorrerie del terribile Margolfo.

Nel buio della notte, al riparo da sguardi indiscreti, le vanghe penetravano la terra resa fangosa dalla copiosa pioggia che sferzante veniva giù colpendo e scivolando sugli abiti logori dei due servi. “Io non ero d'accordo” continuava a ripetere, con voce soffocata, uno dei due, “non avevo mai ucciso un uomo prima”. “Smettila e scava”, proruppe l'altro con uno sguardo feroce. “I suoi occhi mi hanno perseguitato sino ad oggi. La nostra padrona non doveva ordinarci di ucciderlo; egli non aveva commesso nessun reato”, riprese il primo. “Non sta a noi giudicare le scelte dei padroni, a noi tocca solo ubbidire”. “Dovevamo risparmiarlo”, gli ribattè l'altro. Con uno scatto d'ira, il più coraggioso, gettò a terra la vanga e prendendo per il bavero della giacca il timoroso compagno disse: “Lo sai che ci avrebbe fatto uccidere se le avessimo disobbedito! O noi o lui, ed insieme abbiamo scelto lui!”. A tali parole l'altro chinò il capo in segno d'assenso e senza proferire più parola continuò a scavare. Dopo un po' intravidero la bara. Con le nude mani la ripulirono dal terreno. “Aprila tu, io non ne ho il coraggio”, dichiarò il primo afferrando il lume che si erano portati dietro. “Scansati, l'aprirò io” e detto ciò il servo più coraggioso scoperchiò la bara. L'altro sussultò ed istintivamente si ritrasse chiudendo gli occhi: “Visto che era qui? Che sciocchi che siamo!”. Una risata nervosa accompagnò la frase. Per quanto non l'avesse dato a vedere anche lui era stato preso dal timore che il corpo di Sant'Arialdo non fosse più nel feretro. Personalmente aveva parlato al pescatore d'Angera, che sulle acque del lago aveva visto l'immagine di un uomo che corrispondeva esattamente alla descrizione del Santo. La sua prudenza l'aveva indotto quindi a verificare che tutto fosse a posto.

“Doveva essere ubriaco quel pescatore, chissà cosa ha visto”. “Quando me lo hai detto”, aggiunse l'altro, “ho incominciato a tremare come una foglia e per un attimo ho creduto che fosse tornato per vendicarsi”. “Sei uno stupido credulone. Davvero non mi spiego come faccia a fidarmi di te. Chiudi e rimetti la terra a posto”.”Non starai mica andando senza di me?”, chiese il timoroso della risposta l'altro. “Tranquillo, non vado da nessuna parte, ma fa presto. Odio questo tempo inclemente!” e detto ciò si allontanò di alcuni passi, aspettando che il suo compagno avesse terminato. Poi aggiunse: “Dobbiamo scoprire se davvero quel pescatore ha visto qualcuno, oppure se è stato tutto frutto della sua fantasia. Non possiamo essere certi che quando abbiamo ucciso frate Arialdo sull'isolino Partegora, nessuno ci abbia visto. Se la cosa si scopre siamo morti. Non dimenticare che la nostra padrona, Olivia De' Valvassori, è la nipote del vescovo di Milano e che ci farebbe uccidere per nascondere la complicità dello zio. Del resto 'sto frate avrebbe potuto anche impicciarsi degli affaracci suoi. É lui che ha fatto scomunicare il vescovo accusandolo di aver lasciato che la chiesa sprofondasse in dissolutezza di costumi e poi di pratica anche la simonia. Per questo lo abbiamo dovuto uccidere. Continuò scuotendo il capo, un po' per la pioggia e tanto di più per il disappunto: “Non aveva capito che i piccoli non dovevano sfidare i potenti. Ad ogni modo ci accamperemo sulla riva del lago per scoprire qualche cosa di più”. L'altro annuì tacendo. Avrebbe voluto piagnucolare ancora un po', ma conosceva la determinazione del suo degno compare e proprio per questo lo temevano un poco. Madidi di pioggia ed infreddoliti, dormirono per qualche ora, ma le prime luci dell'alba, mentre una fitta foschia avvolgeva il lago rendendolo un luogo dove la realtà si confonde con la fantasia e di pensieri più nascosti assumono forma, un intenso profumo risvegliò i loro sensi. Ancora assonnati si alzarono. Mal fermi sulle gambe si avvicinarono alla riva da dove proveniva il profumo, quando, all'improvviso, dalla nebbia videro uscire una barca che veniva nella loro direzione. Più la barca si avvicinava più il profumo diventava intenso.
Ansiosi di vedere cosa emanasse quella fragranza, mossero alcuni passi nell'acqua, ma appena giunti alla barca la curiosità si tramutò in sbalordimento. Era il corpo si Sant'Arialdo, perfettamente mantenuto che emanava quel dolcissimo profumo. Si guardarono e dal viso di entrambi si sarebbe potuto scorgere non timore, ma profondo rimorso. Stettero in silenzio per alcuni interminabili secondi, poi il più fifone disse: “Bisogna che gli diamo una degna sepoltura”. Presero il corpo del Santo e lo riseppellirono in un luogo dignitoso.

Nella Corsia di Mezzo, proprio davanti al marciapè, c’era un tempo una piccola bottega con una fila di zoccoli appesi all’entrata, buia all’interno, dove, seduto su un panchetto, lavorava il vecchio Surmana. Una volta ad Angera quasi tutti portavano gli zoccoli e, quando il legno era consumato, lo facevano sostituire dal Surmana, che toglieva la patta ancora in buono stato per fissarla ai legni nuovi per mezzo di minuscoli chiodini, i stachètt. Ogni tanto in vecchietto usciva dalla sua bottega e andava in giro per il paese con un carrettino tirato da un asino magro e spelacchiato, per vendere sapone, zoccoli e articoli di merceria. Sedeva di sghimbescio su una sponda del carretto con le gambe ciondoloni e richiamava le clienti recitando con voce monotona: “O Don, voerì la frisa, butûn, saûn e gucc, zocur e bindèi…” Sia lui che il suo asino avevano un’aria tanto misera che i ragazzini, quando passava, gli gridavano:

“Al Surmana gh’aveva un mulet, che da mangiàa che dava i stachètt
e da beu l’acqua piovana l’era l’àsan dal Surmana”.

Alla Bai del Re, tra Barza e Barzola, abitava molti anni fa un ometto piccolo e magro che, quando passava per le strade di Angera, si distingueva dagli altri abitanti del borgo perché anche durante la settimana, era sempre vestì da la festa, col cappello nero. Lo chiamavano al puàta, il poeta, ma più che un poeta era una specie di stregone. Quando le formiche entravano nel locale dove c'era l'allevamento dei bachi da seta e minacciavano da infestare al busch dal brüg, si ricorreva al puàta. Nessuno sapeva con quali arti cacciasse le formiche perché operava da solo, al buio, con le porte e le finestre chiuse, ma sembra certo che ci riuscisse e ne riceveva un compenso in natura o in denaro. Per consolidare la fama dei suoi poteri magici, dopo le notti di bufera diceva di aver lottato contro le streghe che si aggrappavano urlando ai rami degli alberi. Raccontava anche di sapere dove stavano nascosti favolosi tesori, come la gallina dai dodici pulcini d'oro, che si trovava sotto una pietra di confine, nei pressi di casa sua. E siccome era un puàta, lo diceva in rima:

“Tra Barza e Barzöra gh'è una pietra cagnöla.
Chi trõva la pietra cagnöla var püssè che Barza e Barzöra”.

Molti anni fa, all'ultimo piano di una casa nella contrada del Roggione, abitava la strìa Lüminina. Come si fosse guadagnata la fama di strega non si sa, ma è certo che tutti la temevano in paese, specialmente le madri di bambini molto piccoli, che erano il bersaglio preferito delle strìe. Anche se l'isolamento in cui vivevano queste donne rendeva certamente molto triste la loro vita, tuttavia le virtù soprannaturali di cui la gente le credeva dotate dava loro un certo potere. La strìa Lüminina, per esempio, non aveva mai bisogno di scendere a fa' pruvist: ci pensava la sua vicina, una giovane vedova con un bambino che era tutta la sua vita e che doveva essere messo a tutti i costi al riparo dai malefici della strìa. Ma un giorno la donna scese a fare spesa in gran fretta e si dimenticò di chiedere alla Lüminina se aveva bisogno di qualcosa. “Gh'aveva tanta pressa” - si scusò poi al ritorno. “Ti la metterà giò la pressa” - disse la vecchia con uno sguardo cattivo. E cominciarono a succedere cose strane: nel sidelìn dove bolliva il latte per il bambino comparve all'improvviso uno strofinaccio, il suo cucchiaino si coprì di ruggine; i segni del maleficio diventarono insomma così numerosi che la poveretta corse dalla strìa, le si buttò ai piedi piangendo e le giurò che l'avrebbe sempre servita in ogni occasione, senza mai dimenticarsene. Le sue preghiere ebbero effetto: “D'ora in avanti ti me domandaret sempar se gh'ho bisogn.” - disse rabbonita la strìa Lüminina. E il bambino fu salvo.